Intervista allo scrittore francese Philippe Vilain

Intervista allo scrittore francese Philippe Vilain

Di Berta Corvi
 
Signor Vilain, Noi di Voce Spettacolo Le diamo il benvenuto. E’ un onore poter intervistarLa. Ci racconti l’emozione del Suo primo libro (romanzo o saggio).
È un’emozione forte, abbastanza indescrivibile, pubblicare per la prima volta, forse ancora di più a ventotto anni. È stato Philippe Sollers che, un giorno di maggio del 1997, mi ha chiamato per dirmi che voleva pubblicare il mio romanzo, L’étreinte, nella sua collezione “L’infini”, Gallimard. In quelle settimane, dopo l’annuncio, ero su una nuvola e la mia euforia ha continuato fino alla pubblicazione nel mese di ottobre. Il romanzo, che faceva riferimento alla mia relazione con Annie Ernaux, era movimentato, ricco d’azione. Tutta la stampa letteraria vi si dedicò intensamente, i grandi critici come François Nourissier, Bernard Frank, Jérôme Garcin, Josyane Savigneau o Pierre Assouline. Ero giovane, non ero pronto né per affrontare la critica né per apprezzare i complimenti.
A rischio di sembrare banale, si ricorda quando ha detto: “Voglio scrivere”? Come e quando ha capito di essere uno scrittore?
È la domanda chiave di ogni scrittore, ma è una domanda che mi disorienta sempre perché non sono sicuro di sapere rispondere. Non si sa mai veramente come si inizi a scrivere, da dove scaturisca la necessità di scrivere – non dico il desiderio di scrivere un romanzo -, in quale profondità, viscerale, esistenziale, essa si affermi, metta radice. È stato all’incirca a 18 anni che la scrittura è emersa nella mia vita, contro tutto, contro la mia cultura e le mie origini (si leggeva poco nella mia famiglia) contro me stesso (poiché ero un pessimo alunno, senza una vera cultura letteraria). È possibile che io abbia voluto scrivere per estraniarmi dal mio ambiente, per farcela, non lo so, anche perché ero timido, scrivere era quindi un modo per esprimermi; questo potrebbe spiegare il mio complesso rapporto con la scrittura, un rapporto conflittuale, nevrotico, perché non mi piace scrivere, non è divertente, e smetterei volentieri di farlo se potessi. Sono una persona che non ama scrivere e a cui non piace ciò che la scrittura ha fatto di me.

I Suoi romanzi sono molto interessanti. Ce n’è uno che Le piace particolarmente? Perché?
Non mi piacciono in modo particolare i romanzi che scrivo, e non provo ammirazione per le mie opere. Probabilmente perché ho sempre la sensazione di essere al di sotto di quello che vorrei fare e che i miei romanzi non sono all’altezza del romanzo ideale che avrei voluto scrivere, il che non vuol dire che li trovi brutti, che non ne sia convinto o che non ne abbia alcuna considerazione. Solo che tutte le valutazioni sono relative, ovviamente, alle proprie esigenze, tutte le stime sono legate ai propri ideali. Ed è perché il mio romanzo, Le Renoncement (Gallimard, 2001) che aveva, tra l’altro, ottenuto una bella recensione, mi era sembrato non finito che, dieci anni dopo, l’ho riscritto per farlo diventare: Pas son genre (Non il suo tipo). È forse Faux père (Falso padre) il romanzo con il maggior successo letterario, anche il più politicamente e socialmente violento.
Ogni autore riversa emozioni, rimpianti e desideri nelle proprie opere, la propria anima vi si nasconde o vi si rivela. Ci confessi in quale libro possiamo conoscere un po’ di più del Suo mondo interiore. Si sa, i lettori sono curiosi.
Sono ovunque e da nessuna parte nei miei romanzi, penetro nel mio scrivere, in tutti i miei personaggi. Penso che non si debba cercare lo scrittore nei propri personaggi, ma che vada ricercato nel suo stile: è lo stile che rivela il suo essere, la sua complessità, la sua personalità, più che tutte le caratteristiche di personalità – che a volte attribuisce a se stesso – sotto le quali dipinge i suoi personaggi e dipinge se stesso. Se l’autore si nasconde da qualche parte nel testo, non è necessariamente, o soltanto, dietro i suoi personaggi, ma è soprattutto dietro il suo stile, la sua scrittura, il modo in cui si esprime. Il mio ragionamento potrebbe essere riassunto con questa formula: dimmi come scrivi, e ti dirò chi sei! Quindi sovente m’identificano, per pigrizia probabilmente, con i miei narratori, perché parlo in prima persona e faccio mio il loro “io”, come ad esempio quello di François Clément in Pas son genre (Non il suo tipo). In realtà, sono allo stesso tempo, François – nella complessità della sua indecisione, nel suo desiderio di intellettualizzare tutto – e Jennifer – almeno attraverso l’ambiente popolare dal quale proveniamo entrambi. E probabilmente posso descrivere i due personaggi, perché, in una certa misura, io sono l’uno e l’altro. Potrei benissimo far mia la famosa frase di Flaubert: “Madame Bovary, sono io!” E affermare con lui:” Jennifer Dumont, sono io!”.

Ci sono scrittori disciplinati, metodici che elaborano progetti, schemi ben studiati, che rileggono mille volte le loro opere e trascorrono anni estenuanti scrivendo; ed altri che si lasciano trascinare dalla trama, istintivamente scrivono di getto per giungere alla stesura di romanzi che sembrano essersi scritti da soli. Che genere di scrittore è Lei?
Io non credo in questa distinzione, anche se in realtà esiste. Distinguere così le cose significherebbe che, per gli uni, la scrittura è un lavoro e, per gli altri, essenzialmente una questione di ispirazione. Io non credo in questa distinzione, perché non credo all’ispirazione durante tutto il tempo di scrittura di un libro: naturalmente, ci sono momenti in cui l’ispirazione è molto alta, ma non cade dal cielo né è animata ex nihilo dalla grazia dello Spirito Santo; l’ispirazione accade solo quando è stata consentita dal lavoro, quando esso l’ha, prima di tutto, disseminata. La scrittura è induttiva: più si scrive, più si mantiene un lavoro dinamico e più l’ispirazione interviene. L’equazione è reciproca, può funzionare in senso inverso, come per Valéry, che ha detto, giustamente, che l’ispirazione dà il primo verso, e il resto, è tutto lavoro. Nessun romanzo si scrive da solo, o forse i cattivi romanzi. Io che ammiro l’opera di Marguerite Duras, non ho, per esempio, mai aderito a quello che lei chiamava, nell’ultima parte della sua opera, “la scrittura corrente”, l’atto di scrivere il proprio pensiero come viene. Capisco che sia gratificante dire questo e lasciare che si pensi che si è brillanti, che i libri si scrivono da soli, senza dover pensare, ma non è affatto vero o meglio, lo è nel caso di Duras se si considera il suo ultimo periodo di scrittura, quando la sua “scrittura corrente” diventa finalmente il risultato di un’opera, il raggiungimento di un lavoro pensato. Personalmente, preparo metodicamente i miei testi prima di scriverli, elaborando un piano dettagliato, che non rispetterò necessariamente, dal momento che, dopo un po’, è la scrittura che impone le sue regole. Un testo è un progetto architettonico, un’elaborazione paziente alle cui fondamenta bisogna necessariamente pensare. Non si può partire all’avventura della scrittura senza progettare la sua avventura. La scrittura mi sembra essere una giusta miscela d’intelligenza e sensibilità, di disciplina razionale e istinto: l’intelligenza struttura il testo, crea i personaggi, organizza le scene, le idee e gli intuiti, mentre la sensibilità incarna i suoi personaggi, anima queste scene, le colora e le incanta; è anche la sensibilità che comprende il testo in modo intuitivo, riorganizzandolo, liberandolo dai residui inutili. Romain Rolland designa con precisione questo lavoro: “L’artista maturo sa bene che l’ispirazione è rara, e che è compito dell’intelligenza completare il lavoro dell’intuito.” Sono uno scrittore che crede profondamente nell’umiltà del lavoro.
Predilige una situazione e un posto particolari, un momento preciso del giorno, atti a farLe superare eventuali blocchi dello scrittore? Voglio dire, rispetta orari, abitudini? Segue gesti propiziatori?
Scrivo all’incirca 5 ore al giorno: 3 ore al mattino, 2 ore nel pomeriggio. Mai di sera, perché altrimenti rimango sveglio. Per più di 5 ore, è difficile mantenere la concentrazione. Scrivo per lo più in una biblioteca accademica della Sorbona. Non mi piace la scrittura a casa, dove rendo molto meno, ho bisogno di silenzio intorno a me. In ogni caso, non ho riti particolari, solo un programma di disciplina che devo rispettare.

Che cosa pensa di tutti gli aspiranti scrittori che dicono di leggere poco per non farsi influenzare o perché preferiscono utilizzare il tempo ristretto di cui dispongono per scrivere? E che dire di quelli che pagano perché i loro libri siano pubblicati da un editore?
Simili dichiarazioni riflettono un certo dilettantismo. Come se un medico Le dicesse che non ha studiato medicina, ma che vuole visitarLa in ogni caso; io fuggirei a gambe levate. Tali dichiarazioni mi sembrano ingenue, perché non si può scrivere senza aver letto, senza aver forgiato la propria scrittura seguendo dei modelli: la scrittura non nasce da niente, a meno di voler ridurla a un mezzo di espressione semplice e banale, ma questo non è ciò che chiamo scrivere. Tali dichiarazioni sono particolarmente boriose – credere di poter fare letteratura senza conoscerla – e sprezzante per i lettori ai quali ci si rivolge, perché si confessa che si è poco esigenti e poco generosi: non diamo il meglio di noi stessi ai lettori.
Cosa c’insegnano gli scrittori che ci hanno preceduto?
Tutti gli scrittori ci insegnano qualcosa, sia gli antichi sia i contemporanei. È leggendoli che riconosciamo le loro qualità e che capiamo i loro difetti. Gli scrittori importanti, quelli che resteranno, attingono tutti dalla storia della letteratura: la rispettano o vi si oppongono, scrivono con o contro di essa, ma questa storia è infusa in qualche modo nella loro scrittura. A meno che non si pensi che la letteratura sia divertimento, credo che non si possa fare letteratura seriamente se non si ha una certa conoscenza e se non ci si posiziona rispetto ad essa: la scrittura presuppone sempre un’intenzione di letteratura e, con essa, la padronanza di un mondo letterario in sé. Uno scrittore è colui che conosce bene sia la sua storia letteraria sia le regole di base della pratica.

Lei è sia romanziere sia saggista. Come riesce a combinare le due cose, le due anime (creativo e libero per i romanzi, preciso e rigido per i saggi)?
A dire il vero, non mi pongo la domanda: la scrittura teorica e la scrittura narrativa sono allo stesso modo una necessità per me. Le due s’incontrano e si nutrono comunque. E non si esce indenni da lunghi studi di dottorato in letteratura. Io amo appassionatamente la letteratura, studiarla e scriverla. Ho l’ideale dello scrittore completo, che scrive la letteratura e riflette su di essa, come Camus, Sartre, Breton, Gide o Gracq.
Durante la scrittura di La littérature sans idéal , ha mai temuto di fare sfoggio di erudizione o di cadere nell’intellettualismo? Lei eccelle nella polemica e critica la letteratura contemporanea. I termini quali “disincanto”, “de-scrittura”, “letteratura castrata”, “mancanza di stile” e, per riprendere le parole di Barthes, “grado zero”, sono di disapprovazione. L’intento polemico si percepisce con facilità. Il Suo approccio non è un po’ allarmistico? Lei non è troppo incline al pessimismo? Secondo Lei, quali sono le cause del declino della scrittura e, in poche parole, cosa la distingue dalla letteratura che l’ha preceduta? Questo fenomeno potrebbe portare gli scrittori a ripararsi in un sistema avido di denaro? Lei vede una soluzione?
Come non si può rimproverare ad un pescivendolo di vendere pesce, penso che non si possa rimproverare ad un intellettuale di intellettualizzare, tanto meno ai nostri tempi dove il divertimento prevale sulla comprensione delle cose. Io non sono affatto “pessimista”, “polemico” ancora meno “declinista”, ma m’interrogo, alla luce dei fatti, sul destino della mia passione, la letteratura, partendo da fenomeni concreti, stavo per dire, inconfutabili; pensare induce ad una reazione violenta, ad alcune rimesse in discussione, e la lucidità rivela una verità crudele: chi oserebbe dire che la letteratura contemporanea non presenta alcuni aspetti di questa crisi della cultura che Hannah Arendt aveva già brillantemente fatto notare nei primi anni 60? Non si aiuta la letteratura fingendo l’ottimismo per demagogia. Far credere di essere ottimisti significa voler prendere posto nel suo panorama solo per investirci. Modestamente, cerco di fare un punto della situazione, di sottolineare quali siano le tendenze. Vorrei che tutti fossero tanto ottimisti quanto me, mi piacerebbe che tutti credessero nella letteratura come ci credo io fin da quando ero giovane: ho seguito un corso di studi universitari in letteratura per arrivare al dottorato di ricerca e ho dedicato la mia vita alla scrittura; senza la letteratura, non sarei nulla; è normale che io mi preoccupi per il destino letterario e che io condanni le ingiustizie del sistema; è normale che io mi senta legittimato, considerata la mia esperienza, ad osservare e giudicare con lucidità come il sistema di mercato s’imponga sulla letteratura, fenomeno che priva la scrittura della sua dimensione poetica. Non si tratta tanto di pessimismo quanto, a mio avviso, di un atto di resistenza politica e, in qualche modo, di una dichiarazione d’amore fatta alla letteratura. È proprio perché la letteratura mi affascina ineluttabilmente che credo in essa, che mi autorizzo a fare delle considerazioni sulla letteratura. Come in una coppia in crisi, chi ama di più è spesso colui che provoca la discussione per cercare una soluzione a questa crisi, chi ama di più non è l’indifferente che la lascia deperire. Sono entrato nella letteratura come ci si avvicina alla religione. La letteratura è per me la più grande convinzione; non ho scritto romanzi per fare soldi o carriera. Il mio unico intento è di creare un’opera, e voglio credere che oggi il mio lavoro stia cominciando a dare i suoi frutti, poiché le è appena stato dedicato un libro accademico (Philippe Vilain ou la dialecte des genres, con la supervisione di Philippe Arnaud Schmitt e Weigel. Orizons Editions) e numerosi articoli accademici sono stati pubblicati. In proposito, un film e una rappresentazione teatrale sono stati adattati dai miei romanzi, Pas son genre (Sarà il mio tipo?) e La dernière année. Vede, non ho motivo di essere pessimista, è piuttosto il contrario. La gente spesso confonde “pessimismo” e “esigenza” e io sono solo molto esigente, è vero. Il pessimismo, a mio parere, viene da coloro che, non riuscendo a servirsi della letteratura, la usano per soddisfare le ambizioni di carriera o di vanità personale.

Nel romanzo Pas son genre (Non il suo tipo) Lei descrive con finezza e profondità una relazione vittima delle differenze culturali e sociali. Nel leggerlo, non ho mai avuto l’impressione che fosse possibile dipanare i fili di questo rapporto complicato. Infatti, il Suo personaggio maschile intrattiene relazioni atipiche con le donne, è un maschilista dall’anima tormentata, un uomo indeciso che esita e si perde in ogni pensiero. Credo di aver colto nel Suo romanzo una morale nascosta. Ce la può svelare se la mia impressione è confermata? Come definirebbe la parola “Amore”?
Non ho scritto questo romanzo per servire una morale o una tesi, mi sono solo basato su studi sociologici relativi alla scelta del partner: cosa ci porta ad incontrare una persona piuttosto che un’altra? Questi studi, che insistono sul determinismo e il condizionamento delle scelte, hanno turbato molto l’idealista romantico che sono io; i risultati potrebbero essere ridotti ad una formula crudele: non siamo liberi di amare chi vogliamo. Niente, più dell’amore, nei suoi discorsi di tolleranza ostentata, è forse più discriminante, noi ci incontriamo tra di noi, nelle nostre comunità, ci piace chi socialmente ci assomiglia (omogamia), e l’eterogamia (il fatto di scegliere un partner al di fuori del proprio ambiente culturale e sociale) accade raramente, e si ottiene quando alcuni fattori si fondono. In altre parole, ho imparato a pensare che l’amore sia una forma sociale, interessata (quando si concretizza attraverso il matrimonio, in effetti si parla di “contratto sociale”, si ambisce ad un riconoscimento e ad una legittimazione sociale) e che la passione, lei da sola è asociale, disinteressata (o semplicemente interessata al rapporto fisico), e permette la diversità culturale e sociale. In una passione, insieme al desiderio sessuale, si può amare chiunque; in amore, invece, perché deve durare nel tempo, il desiderio non dura, è decisamente meno vero, la selezione e l’isolamento sono importanti.
Passiamo ora ad un thriller dell’anima, La femme infidèle (La moglie infedele), un’opera la cui trama è cupa. Si tratta di un diario terapeutico spietato e liberatorio. Tuttavia, c’è del buono in tutto questo, poiché il protagonista sarà costretto a reinventare la sua vita. Siamo in presenza della cronaca di un amore con tutte le prerogative di un « tour de force », un’esplorazione interna in nome dell’ambivalenza che può essere integrata nella tradizione esistenzialista francese. Il mio spunto di riflessione è accettabile?
M’interessava affrontare il tema dell’infedeltà femminile partendo dall’uomo tradito, o se si preferisce dal cornuto, dalla coscienza umiliata, il fallimento della coppia. Da L’Amant de Lady Chatterley (L’Amante di Lady Chatterley) de Lawrence a L’Amant (L’Amante) di Marguerite Duras, passando da La Nouvelle Héloïse (La Nuova Eloisa) di Rousseau, Adolphe (Adolphe) di Benjamin Constant, Le Diable au corps (Il Diavolo in corpo) di Radiguet, Madame Bovary (La signora Bovary) di Flaubert, Anna Karenina (Anna Karenina ) di Tolstoj, è consuetudine per la letteratura dell’adulterio rappresentare l’infedeltà partendo dai suoi vincitori e conquistatori, non dalle sue vittime, i suoi perdenti e emarginati, non da coloro che la subiscono: riabilitazione letteraria dell’uomo tradito per giungere ad un’anatomia del tradimento, che equivale al tempo stesso ad una sorta di De matrimonio satirico per demistificare il matrimonio. Inoltre, l’infedeltà femminile è interessante in quanto mette in discussione la nostra epoca. Ai tempi del matrimonio per tutti, l’infedeltà femminile esalta il “démariage” (il legame di coppia che si de-istituzionalizza) per alcune, incoraggia alla disobbedienza coniugale (“Donne, indignatevi! Cornificate!”: Un ordine tassativo che mette in discussione la società matrimoniale e ci fa entrare in una sorta di età del sospetto coniugale attraverso discorsi di emancipazione veicolati da riviste femminili e attraverso un certo business che trova nell’infedeltà femminile una fonte di guadagno (creazione d’impresa e siti d’incontri interamente dedicati a donne sposate). C’è come un richiamo all’adulterio. Infine, l’infedeltà invita ad una riflessione più ampia: in effetti, cosa significa l’amore coniugale dal momento che vi è tradimento, che i termini contrattuali sono interrotti? Rispondere che si può continuare ad amare pur cornificando porta a pensare che si può non amare più pur rimanendo fedeli.

Ha mai avuto l’opportunità di essere invitato come scrittore in Italia? In caso affermativo, in quale contesto è capitato? (Salone del Libro, conferenza, associazione di scrittori, ecc) Cosa Le piace dell’Italia? Che rapporto ha con il “Bel Paese”, termine attribuito per eccellenza all’Italia?
Sì, sono stato invitato diverse volte in Italia per promuovere i miei romanzi, le traduzioni e l’adattamento cinematografico di Pas son genre, vale a dire Sarà il mio tipo? Sono stato a Roma, Napoli, Torino, Palermo, Salerno e a Verona, dove il romanzo Non il Suo tipo ha ricevuto il premio Scrivere per amore, il cui presidente era il famoso Vittorio Sgarbi. Fra l’altro, tornerò in Italia a metà novembre in occasione del salone Umbrialibri a Perugia, poi a febbraio a Napoli, dove, in entrambe le città, il film Sarà il mio tipo? sarà proiettato. Mi capita di soggiornare per diversi mesi a Napoli, città del mio cuore. Ho vissuto un po’ a Torino, dove ho fatto laboratori di scrittura nei licei francesi e dove ho avuto un amore, che mi ha fatto scrivere un romanzo, Faux père. Non posso dire perché l’Italia mi affascini così tanto. Appare in quasi tutti i miei libri. L’Italia non rappresenta necessariamente per me una destinazione romantica, il “bel paese”, un teatro delle arti, dell’amore e dell’allegria, come i Francesi spesso ne fanno la caricatura, è per me un luogo intimo, che mi dà una sensazione di strana familiarità, perché pur essendo culturalmente vicino a me, per la lingua e anche lo stile di vita, l’Italia rimane, a mio parere, abbastanza inafferrabile. L’Italia degli italiani mi sembra particolarmente malinconica, anche paradossale; del romanticismo, conserva la sua coscienza tormentata, tesa tra nostalgia e modernità, lacerata tra il cuore (il Sud) e la ragione (il Nord), il sentimento nazionale e le particolarità regionali, il cattolicesimo e la sua trasgressione, la moralità e la sua Combinata, il suo rigore e la sua indisciplina, la sua fantasia e il suo catenaccio, la sua notevole cultura e il suo bling-bling, la sua classe e il suo cattivo gusto televisivo, la sua dolce vita e la sua precarietà … L’Italia degli italiani sembra non riuscire ad essere in pace con se stessa perché la pace si ottiene al prezzo di un conflitto permanente, perché la verità vi si trova solo nei paradossi, e che, lungi dal manicheismo, il bene attinge dal male, e viceversa, infine, perché tutto è in tutto, il bello nel brutto, l’allegria nella serietà, il divertimento nella noia, la vittoria nel realismo della prova, “all’italiana “, come dicono i francesi. Non mi piace molto l’Italia allegra dei francesi che la deliziano solo durante le vacanze, ma l’Italia complessa e torturata, aristocratica e popolare, realistica e teatrale, degli italiani, alla quale mi sento profondamente legato, l’Italia, in cui il quotidiano si estetizza, dove si trasfigura il banale; l’Italia, tenera e drammatica, infine, rappresentata dal capolavoro di Ettore Scola, Nous nous sommes tant aimés (C’eravamo tanto amati), e alcuni film di Nanni Moretti. L’Italia è, ai miei occhi, come una poesia di Ungaretti: “Chi sono io? Sono un sogno oscuro.”
Prossimamente …
I miei progetti sono sempre gli stessi, scrivere. Un romanzo – sulla bugia in amore, ispirandomi ad un’esperienza straordinaria, incredibile, che mi è capitata – sarà pubblicato nel 2017 da Grasset. E sto lavorando in questo periodo ad un romanzo – il cui tema è l’assenza – e su un nuovo saggio – una riflessione sull’iper-democratizzazione della letteratura.
La ringraziamo della Sua disponibilità e speriamo di poter ospitarLa con frequenza in Italia.

 
 
Monsieur Vilain, soyez le bienvenu parmi nous. Pour Voce Spettacolo ainsi que pour moi, c’est un honneur et un grand plaisir de pouvoir vous interviewer. Racontez-nous l’émotion de votre premier livre (roman ou essai) publié.
C’est une émotion forte, assez indescriptible, de publier pour la première fois, plus encore peut-être à vingt-huit ans. C’est Philippe Sollers qui, un jour de mai 1997, me téléphona pour m’annoncer qu’il voulait publier mon roman, L’étreinte, dans sa collection « L’infini », chez Gallimard. J’étais sur un nuage ces semaines-là, depuis cette annonce, et mon euphorie continua jusqu’à la publication en octobre. Le roman, qui évoquait ma relation avec Annie Ernaux, était sulfureux. Toute la presse littéraire s’en était emparée, les grandes plumes critiques comme François Nourissier, Bernard Frank, Jérôme Garcin, Josyane Savigneau ou Pierre Assouline. J’étais jeune, je n’étais pas armé pour subir les critiques ni même apprécier les éloges.
Au risque de paraître banale, vous rappelez-vous du moment où vous vous êtes dit: “Je veux écrire”? Comment et quand vous êtes-vous rendu compte que vous étiez un écrivain?
C’est la question fondatrice de tout écrivain, mais c’est une question qui me désarme toujours, parce que je ne suis pas certain de savoir y répondre. On ne sait jamais trop d’où vient l’écriture, d’où vient la nécessité d’écrire –je ne dis pas l’envie d’écrire un roman-, dans quelle profondeur, viscérale, existentielle, celle-ci s’enracine. C’est vers 18 ans que l’écriture s’est imposée à moi, contre tout, contre ma culture et mes origines (on lisait peu dans ma famille), contre moi-même (car j’étais alors en échec scolaire, sans véritable culture littéraire). Il est possible que j’aie voulu écrire pour m’extraire de mon milieu, pour m’en sortir, je ne sais pas, aussi parce que j’étais timide et qu’écrire était alors un moyen de m’exprimer ; cela pourrait expliquer le rapport complexe j’entretiens à l’écriture, un rapport conflictuel, névrotique, car je n’ai pas la passion d’écrire, pas de plaisir, et je cesserais volontiers d’écrire si je le pouvais. Je suis quelqu’un qui n’aime pas écrire et qui n’aime pas ce que l’écriture a fait de moi.

Vos romans sont intrigants. Y en a-t-il un que vous aimez particulièrement? Pourquoi?
Je n’aime pas particulièrement les romans que j’écris, et je n’ai pas d’admiration pour mon œuvre. Sans doute parce que j’ai toujours le sentiment d’être au-dessous de ce que je voudrais faire et que mes romans ne sont pas à la hauteur du roman idéal que je souhaiterais écrire – ce qui ne signifie pas que je trouve mes romans mauvais, que je ne les estime ni ne les considère pas. Seulement toutes les appréciations sont relatives, bien sûr, à sa propre exigence, toutes les estimations sont relatives à ses propres idéaux. Ainsi, c’est parce que mon roman, Le Renoncement (Gallimard, 2001), qui avait, par ailleurs, recueilli une belle presse, me semblait inabouti que, dix ans plus tard, je l’ai réécrit pour en faire : Pas son genre. C’est peut-être Faux père, mon roman le plus littérairement abouti, le plus politiquement, et socialement, violent aussi.
4) Chaque auteur déverse des émotions, des regrets et des désirs dans ses œuvres, son âme s’y cache ou s’y révèle. Confiez-nous dans quel livre nous pouvons connaître un peu plus votre monde intérieur. On le sait, les lecteurs sont curieux.
Je suis partout et nulle part dans mes romans, je suis infusé dans mon écrire, dans l’ensemble de mes personnages. Je crois qu’il ne faut pas chercher l’écrivain dans ses personnages, mais qu’il faut le chercher dans son style : c’est le style qui révèle son être, sa complexité, sa personnalité, plus que tous les traits de personnalités – qu’il emprunte parfois – sous lesquels il peint ses personnages et se peint lui-même. Si l’auteur se cache quelque part dans son texte, ce n’est pas forcément, ou seulement, derrière ses personnages, mais c’est avant tout derrière son style, son écrire, sa manière de s’exprimer. Mon propos pourrait se résumer par cette formule : dis-moi comment tu écris, et je te dirai qui tu es ! Ainsi, l’on m’assimile souvent, par paresse sans doute, à mes narrateurs, parce que je parle à la première personne et que j’assume leur « je », comme celui de François Clément dans Pas son genre, mais je suis tout à la fois ce François – dans la complexité de son indécision, dans son désir de tout intellectualiser – et cette Jennifer – au moins par le milieu populaire d’où je viens, par la vision désintéressée de l’amour que je pense avoir. Et sans doute puis-je décrire les deux personnages parce que, dans une certaine mesure, je suis les deux. Je pourrais très bien reprendre à mon compte la fameuse phrase de Flaubert : « Madame Bovary, c’est moi!», et dire, avec lui : « Jennifer Dumont, c’est moi ! ».
Il existe des écrivains disciplinés, méthodiques qui dressent des plans, des schémas bien étudiés, qui relisent mille fois leurs œuvres et consacrent des années exténuantes à leur travail; et d’autres qui vont là où l’histoire les mène et instinctivement déposent des phrases jusqu’à composer des romans qui semblent s’écrire seuls. Quel genre d’écrivain êtes-vous?
Je ne crois pas à cette distinction, même si, effectivement, elle existe. Distinguer ainsi les choses reviendrait à dire que, pour les premiers, l’écriture est un travail, et, pour les seconds, essentiellement une affaire d’inspiration. Je ne crois pas à cette distinction parce que je ne crois pas à l’inspiration sur la durée de l’écriture d’un livre : bien entendu, il y a des moments où l’inspiration est plus grande, mais elle ne tombe pas du ciel et n’arrive pas ex nihilo par la grâce du Saint Esprit ; l’inspiration n’arrive que lorsque le travail l’a permise, lorsqu’il l’a semée au préalable. L’écriture est inductive : plus on écrit et plus on entretient une dynamique de travail, et plus l’inspiration vient. L’équation est réciproque, elle peut marcher en sens inverse, comme pour Valéry, qui dit, avec justesse, que c’est l’inspiration qui vous donne le premier vers, et le reste, tout est travail. Aucun roman ne s’écrit seul, ou peut-être les mauvais romans. Moi qui admire l’œuvre de Marguerite Duras, je n’ai, par exemple, jamais adhéré à ce qu’elle appelait, dans la dernière partie de son œuvre, «l’écriture courante», le fait d’écrire au fil de la plume. Je comprends qu’il soit valorisant de dire cela et de laisser penser que l’on a du génie, que les livres s’écrivent seuls, sans être pensés, mais ce n’est pas vrai : ou bien, si, dans le cas de Duras, c’est vrai, ça ne l’est justement que concernant sa dernière période d’écriture quand son «écriture courante » se donne enfin comme le résultat d’une œuvre, la réalisation d’un travail pensé. Pour ma part, je conçois méthodiquement mes textes avant de les écrire, en élaborant un plan détaillé, que je ne respecterai pas forcément, puisque, au bout d’un moment, c’est l’écriture qui dicte sa nécessité. Un texte est une conception architecturale, une élaboration patiente dont il faut nécessairement penser les fondations. On ne peut pas partir à l’aventure de l’écriture sans concevoir son aventure. L’écriture me semble être un savant mélange d’intelligence et de sensibilité, de discipline rationnelle et d’instinct : l’intelligence structure le texte, conçoit des personnages, organise les scènes, les idées et les intuitions, tandis que la sensibilité, elle, incarne ses personnages, fait vivre ces scènes, les colore et les enchante ; c’est également la sensibilité qui appréhende intuitivement le texte, en le réorganisant, en le débarrassant de ses scories. Romain Rolland désigne parfaitement ce travail : « L’artiste d’expérience sait bien que l’inspiration est rare, et que c’est à l’intelligence d’achever l’œuvre de l’intuition. » Je suis un écrivain qui croit foncièrement à l’humilité du travail.
 

Existe-t-il une situation et un lieu particuliers, un moment précis de la journée qui vous conviennent, qui facilitent le franchissement d’éventuels blocs de l’écrivain? Je veux dire, respectez-vous des horaires, des habitudes? Avez-vous des gestes d’usage propitiatoires que vous suivez?
J’écris environ 5 heures par jour : 3 heures le matin, 2 heures l’après-midi. Jamais le soir, parce que cela m’empêche de dormir. Au-delà de 5 heures, il est difficile de maintenir la concentration. J’écris le plus souvent dans une bibliothèque universitaire de la Sorbonne. Je n’aime pas écrire chez moi, où je suis moins efficace, j’ai besoin d’un mouvement silencieux autour de moi. Sinon, je n’ai pas de rites particuliers, juste une discipline horaire que je dois respecter.
Que pensez-vous de tous les aspirants écrivains qui disent qu’ils lisent peu pour ne pas se laisser influencer ou parce que le peu de temps qu’ils ont à disposition ils préfèrent l’utiliser pour écrire? Et que dire de ceux qui paient pour voir leurs livres publiés par un éditeur ?
Des telles affirmations témoignent d’un certain amateurisme. Un peu comme si un médecin vous disait qu’il n’a pas étudié la médecine, mais qu’il souhaite vous ausculter quand même; moi, je m’enfuirai à toutes jambes. Il me semble que de telles affirmations sont très naïves car on ne peut pas écrire sans avoir lu, sans s’être forgé à partir de modèles : l’écriture ne naît pas de rien, à moins de réduire celle-ci à n’être qu’un moyen de pure et simple expression, mais ce n’est pas ce que j’appelle écrire. De telles affirmations sont surtout prétentieuses –croire que l’on peut faire de la littérature sans la connaître- et méprisantes pour le lectorat auquel on s’adresse, car c’est aussi faire l’aveu de son propre manque d’exigence et de son manque de générosité : on ne donne pas le meilleur de soi-même au lectorat.

Que nous apprennent les écrivains qui nous ont précédés?
Tous les écrivains nous apprennent quelque chose, nos anciens comme nos contemporains, c’est en les lisant que nous nous inspirons de leurs qualités et que nous comprenons leurs défauts. Mais les écrivains importants, ceux qui resteront, puisent tous dans l’histoire de la littérature : ils la respectent ou s’y opposent, ils écrivent avec ou contre elle, mais cette histoire est infusée d’une quelconque manière dans leur écriture. Sauf à penser la littérature comme un divertissement, je crois que l’on ne peut pas faire de la littérature sérieusement sans en avoir une certaine connaissance, et sans se positionner par rapport à elle : écrire suppose toujours une intention de littérature et, avec celle-ci, la possession d’un monde littéraire en soi. Un écrivain est celui qui maîtrise tout à la fois son histoire littéraire et les règles élémentaires de sa pratique.
Vous êtes aussi bien romancier qu’essayiste. Comment réussissez-vous à unir les deux choses, les deux âmes (créatif et libre pour les romans, précis et rigide pour les essais)?
A vrai dire, je ne me pose pas la question : l’écriture théorique et l’écriture romanesque me sont pareillement nécessaires. Les deux se répondent et se nourrissent d’ailleurs. Et puis, on ne sort pas indemne de longues études doctorales en littérature. J’aime passionnément la littérature, l’étudier et l’écrire. J’ai l’idéal de l’écrivain complet, qui écrit de la littérature et réfléchit sur celle-ci, comme Camus, Sartre, Breton, Gide ou Gracq.

Pendant la rédaction de “La littérature sans idéal”, n’avez-vous jamais redouté de faire un grand étalage d’érudition ou de tomber dans l’intellectualisme? Vous excellez dans la polémique et vous vous engagez dans une critique de la littérature contemporaine. Les termes tels que «désenchantement », « désécriture », « littérature castrée », « manque de style » et, pour reprendre l’expression de Barthes, « degré zéro » sont réprobateurs. L’intention polémique se perçoit aisément. N’êtes-vous pas un peu alarmiste et trop enclin au pessimisme? Quelles sont, selon vous, les causes de la dévalorisation de l’écriture et, en quelques mots, qu’est-ce qui la distingue de la littérature qui l’a précédée? Poussera-t-elle les écrivains à venir s’abriter dans un système âpre au gain? Voyez-vous une solution?
Comme on ne peut pas reprocher à un poissonnier de vendre du poisson, je crois que l’on ne peut pas reprocher à un intellectuel d’intellectualiser, encore moins à notre époque où le divertissement prend le pas sur la compréhension des choses. Je ne suis pas du tout «pessimiste», « polémique », encore moins « décliniste », mais je m’interroge avec lucidité sur le destin de ma passion, la littérature, à partir de phénomènes tangibles, j’allais dire, irréfutables ; réfléchir provoque toujours une violence, certaines remises en cause, et la lucidité révèle une vérité cruelle : qui oserait dire ainsi que la littérature contemporaine ne participe pas de cette crise de la culture qu’avait déjà si brillamment désignée Hannah Arendt au début des années 60 ? Feindre l’optimisme par démagogie n’est pas servir la littérature, c’est simplement vouloir se positionner dans son paysage pour y investir. Modestement, j’essaie d’établir un état des lieux, de mettre en évidence des tendances. J’aimerais que tout le monde soit aussi optimiste que moi, j’aimerais que tout le monde croit à la littérature comme j’y crois moi-même depuis ma jeunesse : j’ai suivi un cursus universitaire en littérature jusqu’au doctorat et j’ai consacré ma vie à l’écriture ; sans la littérature, je ne serais rien ; il est normal que je m’inquiète de son sort et que je stigmatise les injustices de son système ; il est normal que je me sente légitimé, par mon parcours, à porter un regard lucide sur la manière dont elle s’inféode au système marchand en ne faisant plus de l’écriture un enjeu poétique. Plutôt que du pessimisme, il s’agit plutôt, à mes yeux, d’un acte de résistance politique, et, en quelque sorte, d’une déclaration d’amour faite à la littérature. C’est parce que la littérature continue de m’enchanter, que je crois en elle, que je m’autorise à écrire sur elle. Comme dans un couple en crise, celui qui aime le plus est souvent celui qui provoque la discussion pour essayer de solutionner cette crise, ce n’est pas l’indifférent qui la laisse pourrir. Je suis entré en littérature comme on entre en religion, la littérature reste pour moi la plus grande croyance ; je n’ai pas écrit des romans pour gagner de l’argent ou faire carrière, ma seule intention est de faire une œuvre, et je veux croire que mon travail commence à porter ses fruits aujourd’hui, puisque un ouvrage universitaire vient de lui être consacré (Philippe Vilain ou la dialectique des genres, sous la direction de Arnaud Schmitt et Philippe Weigel. Orizons Editions) et que de nombreux articles universitaires sont publiés, puisqu’un film et une pièce de théâtre ont déjà été adaptés de mes romans, Pas son genre et La dernière année. Voyez, je n’ai pas de raison d’être pessimiste, c’est même plutôt tout le contraire. Les gens confondent souvent « pessimisme » et « exigence », et je suis seulement très exigeant, c’est vrai. Le pessimisme, à mes yeux, vient de ceux qui, à défaut de se servir de la littérature, s’en servent pour assouvir des ambitions de carrière ou de vanité personnelle, ceux sur le fond, la littérature indifférente.
Dans le roman “Pas son genre” vous décrivez avec finesse et profondeur une relation victime des différences culturelles et sociales. En le lisant, je n’ai jamais eu l’impression que les fils de ce rapport enchevêtré pourraient se dénouer. Votre personnage masculin est en effet étrangement lié aux femmes, c’est un phallocrate à l’âme tourmentée, un homme indécis qui hésite et s’égare à chaque pensée. Je crois avoir perçu dans votre roman une morale cachée. Pouvez-vous nous la dévoiler si mon impression est confirmée? Quelle définition donneriez-vous du mot « Amour » ?
Je n’ai pas écrit ce roman pour servir une morale ou une thèse, je me suis simplement fondé sur des études sociologiques relatives au choix du conjoint : qu’est-ce qui nous conduit à rencontrer telle personne plutôt qu’une autre ? Ces études, qui insistent sur le déterminisme et le conditionnement des choix, ont beaucoup troublé l’idéaliste romantique que je suis ; leurs résultats pourraient se réduire à une formule cruelle : nous ne sommes pas libres d’aimer qui nous voulons. Rien, plus que l’amour, sous ses discours de tolérance affichée, n’est peut-être plus ségrégatif, nous nous rencontrons entre nous, dans nos milieux, nous aimons qui nous ressemble socialement (homogamie), et l’hétérogamie (le fait de choisir un partenaire en dehors de son milieu culturel et social) est plus exceptionnelle, et se réalise lorsque certains paramètres sont réunis. Pour le dire autrement, j’ai appris à penser que l’amour est une forme sociale, intéressée (lorsqu’il se concrétise par le mariage, on parle d’ailleurs de « contrat social », on veut une reconnaissance et légitimité sociale) et que la passion, elle, seule, est asociale, désintéressée (ou seulement intéressée par la relation physique), et permet la mixité culturelle et sociale. Dans une passion, réglée sur le désir sexuel, on peut aimer à peu près tout le monde ; en amour, en revanche, parce qu’il s’agit de durer dans le temps, et que le désir ne dure pas, c’est beaucoup moins vrai, la sélection et la ségrégation sont grandes.

Venons-en maintenant à un thriller de l’âme, “La femme infidèle”, une œuvre dont l’intrigue est sombre. C’est un journal thérapeutique à la fois impitoyable et libérateur. Cependant, il y a du bon dans tout cela puisque le protagoniste va être obligé de réinventer sa vie. Nous sommes en présence de la chronique d’un amour avec toutes les prérogatives du tour de force, une excavation interne au nom de l’ambivalence qui peut s’insérer pleinement dans la tradition existentialiste française. Ma réflexion peut-elle être admise ?
Il m’intéressait d’aborder l’infidélité féminine depuis l’homme trompé, le cocu si l’on préfère, depuis la conscience humiliée, la défaite conjugale. De L’Amant de Lady Chatterley de Lawrence à L’Amant de Marguerite Duras, en passant par La Nouvelle Héloïse de Rousseau, Adolphe de Benjamin Constant, Le Diable au corps de Radiguet, Madame Bovary de Flaubert, Anna Karenine de Tolstoï, la littérature adultère a coutume de représenter l’infidélité depuis ses triomphants et ses conquérants, non depuis ses victimes, ses laissés-pour-compte, non depuis ceux qui la subissent : réhabilitation littéraire de l’homme trompé en procédant à une anatomie du cocufiage, qui s’apparente en même temps à une sorte de De matrimonio satirique visant la démystification du conjugal. Par ailleurs, l’infidélité féminine est intéressante en ce qu’elle interroge notre époque. A l’époque du mariage pour tous, l’infidélité féminine prône le démariage pour quelques-unes, incite à la désobéissance maritale (« Femmes, indignez-vous ! Trompez ! » : une injonction qui met en doute la société maritale et nous fait entrer dans une sorte d’ère du soupçon conjugal à travers des discours d’émancipation véhiculés par une certaine presse féminine et à travers tout un business dont l’infidélité féminine est le marché (création d’entreprise et site de rencontres entièrement consacrés aux femmes mariées). Il y a comme un appel à l’adultère. Enfin, l’infidélité propose une réflexion plus large : en effet, que signifie l’amour conjugal dès lors qu’il y a tromperie, dès lors que les termes du contrat sont rompus ? Répondre que l’on peut continuer d’aimer tout en trompant conduit à concevoir que l’on peut ne plus aimer tout en restant fidèle.

Avez-vous déjà eu l’occasion d’être invité en tant qu’écrivain en Italie? Si oui, dans quel cadre était-ce? (Salon du livre, colloque, association d’écrivains, etc) Qu’aimez-vous de l’Italie ? Quelle relation avez-vous avec le « Bel Paese », expression attribuée par antonomase à l’Italie ?
(Lorsque tu réponds à ces questions, précise que tu as décroché le Prix Littéraire International « Scrivere per Amore » grâce à ton livre « Pas son genre » lors de la 17ième édition de Vérone et que c’est Vittorio Sgarbi, président du jury, qui te l’a remis).
Oui, j’ai souvent été invité en Italie pour la promotion de mes romans, de leurs traductions et de l’adaptation cinématographique de Pas son genre – Sarà il mio tipo ? : à Rome, Naples, Turin, Palerme, Salerne, Vérone où Non il suo tipo a reçu le prix Scrivere per amore, dont le président était le fameux Vittorio Sgarbi. Et d’ailleurs, j’y retournerai mi-novembre dans le cadre du salon Umbrialibri à Pérouse, puis au mois de février à Naples, ou, dans les deux villes, le film Sarà il mio tipo ? sera projeté. Il m’arrive de faire des séjours de plusieurs mois à Naples, ma ville de cœur, et j’ai vécu un moment à Turin, où j’avais fait des ateliers d’écriture dans les lycées Français, où j’ai eu un amour, qui m’a fait écrire un roman, Faux-père. Je ne saurais dire pourquoi l’Italie me fascine autant. Elle figure d’ailleurs dans pratiquement tous mes livres. L’Italie ne représente pas forcément pour moi une destination romantique, le « bel paese », un théâtre des arts, de l’amour et de la gaité, comme les Français la caricaturent souvent, elle est pour moi un endroit intime, qui me donne le sentiment d’une étrange familiarité, car, tout en m’étant culturellement proche, par la langue et le mode de vie aussi, l’Italie me demeure en même temps assez insaisissable. L’Italie des Italiens me semble surtout mélancolique, paradoxale aussi ; du romantisme, elle tient sa conscience tourmentée, tendue entre la nostalgie et la modernité, tiraillée entre le cœur (le Sud) et la raison (le Nord), le sentiment national et les particularismes régionaux, le catholicisme et sa transgression, la morale et sa combinata, sa rigueur et son indiscipline, sa fantaisie et son catenaccio, sa haute culture et son bling-bling, sa classe et son mauvais goût télévisuel, sa dolce vita et sa précarité… L’Italie des Italiens semble ne pouvoir être en paix avec elle-même parce que la paix ne s’y obtient précisément qu’au prix d’un conflit permanent, parce que la vérité ne s’y trouve que dans les paradoxes, et que, loin de tout manichéisme, le bien y puise dans le mal, et inversement, enfin, parce que tout est dans tout, le beau dans le laid, la gaité dans le sérieux, le divertissement dans l’ennui, la victoire dans le réalisme de l’épreuve, « à l’italienne » comme disent les Français. Je n’aime pas trop l’Italie gaie des Français qui ne s’enchantent d’elle qu’en vacances, mais l’Italie complexe et torturée, aristocrate et populaire, réaliste et théâtrale, des Italiens, à laquelle, je me sens profondément attaché, l’Italie où le quotidien s’esthétise, où le banal se transfigure ; l’Italie, tendre et dramatique, enfin, représentée par le chef-d’œuvre d’Ettore Scola, Nous nous sommes tant aimés, et certains films de Nanni Moretti. L’Italie est, à mes yeux, comme un poème d’Ungaretti : « Chi sono io ? Sono un sogno oscuro. »
Prochainement ….
Mes projets sont toujours les mêmes, écrire. Un roman – sur le mensonge en amour, d’après une expérience incroyable, invraisemblable, qui m’est arrivé – sera publié en 2017 aux éditions Grasset. Et je travaille actuellement sur un roman – dont le thème est l’absence- et sur un nouvel essai –une réflexion sur l’hyperdémocratisation de la littérature.
Nous vous remercions d’avoir bien voulu vous soumettre à notre entretien et nous espérons vous accueillir très souvent en Italie.
 

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