Il nostro Gianfranco De Cataldo ha intervistato il regista Alessandro Redaelli. Di seguito l’intervista esclusiva per voi lettori!
Ciao Alessandro! La prima domanda. Un tuffo nel passato. Da bambino dicevi… “da grande farò”…?
Ciao a voi e, innanzitutto, grazie per l’intervista. In realtà le mie passioni non sono mai cambiate particolarmente nel corso della mia adolescenza, diciamo che la prerogativa è sempre stata quella di creare, indipendentemente dal medium. La prima passione, dai tre/quattro anni, è stata quella dei videogames, passione che persiste tutt’oggi poiché penso sia un mezzo espressivo che ha moltissimo da offrire e stiamo assistendo al passaggio del medium alla maturità definitiva proprio in questi anni; poi c’è stata la musica, come succede al 99% dei ragazzi si sogna di fare la rockstar, sogno che probabilmente avrà sempre un angolino nel cuore di noi tutti e infine, per l’appunto, il cinema, dunque il regista, colui che racconta storie attraverso immagini in movimento. Tuttavia non è stato un processo troppo graduale, sono tre passioni che ho sviluppato contemporaneamente (a livello di produzione) dai dieci, undici anni in poi e semplicemente col tempo ho iniziato a lasciarne da parte alcune per dedicarmi completamente al cinema, ma – tornando alla domanda – se mi fosse stata fatta da bambino avrei semplicemente risposto “creare cose” e solo dai quattordici, quindici anni avrei risposto con certezza il regista.
Tanti pensano che fare il regista sia fare solamente soldi, in realtà è soprattutto passione con tanti sacrifici, raccontaci come nasce la tua…
La mia passione ha iniziato a svilupparsi per l’appunto intorno agli undici anni. Ricordo che ho girato i primi pseudo cortometraggi con una piccola macchina fotografica compatta che registrava per sessanta secondi al massimo, così uscivo con i miei amici, riprendevo per un minuto, tornavo a casa a scaricare il materiale sul vecchio pc di mio zio e tornavo immediatamente fuori a girare. Probabilmente non sapevo neppure cosa stavo facendo, avevo scoperto il magico “movie maker” di windows che permetteva di mettere delle immagini in fila aggiungendo una traccia audio in sottofondo e quello mi bastava per non annoiarmi troppo e dedicarmi alla realizzazione di storie assurde con qualche amico che si prestava, inconsapevolmente o meno, a divenire star di quei piccoli video. L’amore vero per il cinema – invece – nacque durante gli anni del liceo. Ho frequentato appunto una delle pochissime scuole superiori specializzate in cinema, quando ho iniziato era il primo anno che si sperimentava il corso alla scuola Marcello Dudovich di Milano, durante il primo anno mi ricordo che vidi il film che mi cambiò la vita e che probabilmente rimane tutt’oggi il film che amo di più, ovvero quell’8 ½ di Fellini di cui avevo solo sentito parlare ma a cui non mi ero mai interessato particolarmente poiché da piccolo ero fissato esclusivamente col cinema horror. Da lì capii cos’era l’arte cinematografica e mi fissai sul fatto che dopo aver ricevuto tale dono dovessi restituire assolutamente il favore alla settima arte.
Dopodiché le cose si sono fatte un filino più serie, ho iniziato a realizzare cortometraggi in modo meno amatoriale, mettendo più cura in ogni aspetto della produzione ma sempre più o meno da solo dietro alla macchina da presa; la troupe come la si intende generalmente è arrivata dopo, quando ho iniziato la scuola di civica di cinema, sempre a Milano, e ho realizzato il mio primo lungometraggio distribuito più o meno in tutto il mondo. Chiaramente fare cinema oggi e soprattutto in Italia non è una passeggiata, anzi, è più simile all’inferno di dantesca memoria poiché si tratta quasi esclusivamente di sacrifici che portano a poco – per quanto riguarda le soddisfazioni – e niente per – quanto riguarda l’aspetto economico. Si tratta solamente di portare avanti un amore troppo forte per esser lasciato alle spalle sperando che forse, prima o poi, darà i suoi frutti. Questo è colpa sia del paese in cui siamo, che del pubblico che abbiamo, che di chi il cinema lo fa, e non parlo solo delle grosse produzioni.
Secondo te come è possibile scrivere ancora cinema di qualità?
Ci sono un’infinità di modi per scrivere del buon cinema, quello che penso sia fondamentale oggi è tentare di uscire dagli schemi rimanendo sempre personali ma senza rinnegare la storia. Da più di dieci anni siamo schiavi delle strutture, dei generi e delle forme che hanno dominato il cinema per un secolo, è impossibile fare qualcosa di meglio di ciò che non sia già stato fatto in precedenza senza variare la formula o l’approccio. Per fare un esempio legato all’Italia, fino agli ultimi anni settanta e i primi anni ottanta avevamo la commedia italiana di Monicelli, che riusciva a raccontare il nostro paese in modo brillante, facendoci ridere ma al contempo ragionare su ciò a cui stavamo assistendo, era possibile fare qualcosa di meglio all’interno di quel tipo di commedia? C’è riuscito Moretti perché per l’appunto ha utilizzato modalità e strutture differenti, riuscendo ad uscire da uno schema che – tra l’altro – fino a quel momento funzionava ancora, poi il nulla. Abbiamo preso la commedia italiana e l’abbiamo spogliata di tutto ciò che poteva essere definito artistico, politico o persino tecnicamente accettabile, lasciandola spoglia e ritrovandoci, oggi, col cinema che abbiamo. Dunque si tratta semplicemente di cambiare, di osare rischiando di non esser a tutti i costi perfetti e quadrati, ma prendendo l’unica via che possa portarci a dare nuova vita al cinema e, di conseguenza, al cinema personale e di qualità.
Il lavoro del regista oggi.
Sicuramente è più complicato del lavoro del regista ieri. Oggi il cinema è accessibile a tutti, sia la fruizione che la produzione. Con mille euro appena ci si compra una camera, un’ottica e un microfono e se ciò è da una parte un bene, dall’altra abbiamo una percentuale sempre più alta di cinema amatoriale, che andrebbe anche bene se non fosse che nel novantanove per cento dei casi si limita a scimmiottare il cinema ad alto budget mentre dovrebbe trovare la sua forza proprio nell’opposto.
Il problema dell’accessibilità è anche che – anche qui nel novantanove per cento dei casi – si rimane al cinema NO o super-low budget, perché i soldi girano sempre e solo nelle produzioni che possono avere un successo unanime di pubblico. Non penso che un regista di kolossal sterili alla Michael Bay o produzioni a grosso budget italiane alla Vanzina sia fondamentalmente felice, perché o ami il cinema – e felice non puoi fisicamente esserlo per dar vita a determinate pellicole – o sei semplicemente un mercenario, una macchina che ha imparato a gestire quattro cose e si limita a fare quello che gli viene detto esclusivamente per denare, esattamente come un qualsiasi impiegato in una qualsiasi azienda, ma con in aggiunta la colpa di essere a capo del progetto.
Come nascono le tue idee?
Sempre dalle immagini, cosa che in tanti pensano sia un male. Molti partono da storie che trovano sui giornali o leggono nei romanzi, da altri film o dai personaggi che incontrano. Io, a parte qualche raro caso, parto da una o più immagini che mi vengono in mente o che mi ritrovo davanti camminando per strada, da lì ci ricamo sopra arrivando poi a dei personaggi e a una storia, che scrivo o lascio in mano allo sceneggiatore di quasi tutti i miei film Ruggero Melis.
Ci si ribella a questa formula perché sembra che il focus non sia più quel che si racconta ma come si racconta, dimenticandosi che il cinema è immagine e suono, dunque si tratta effettivamente di come racconti una storia, non di quale stai raccontando.
A volte, oltre all’immagine, parto anche da quello che ho, che nel cinema indipendente è sempre la scelta migliore. Si fa una lista di quello che si ha a disposizione, come attori, spazi, eccetera, e ci si inventa qualcosa che abbia tutti questi elementi come fece Rodriguez col suo primo film, che grazie a questa trovata realizzò una pellicola apparentemente costosa pur essendo stata girata con meno di ventimila dollari.
Un film che avresti voluto dirigere.
Ce ne sono alcuni, diciamo che il primo che mi viene in mente degli ultimi anni è Only God Forgives di Refn, perché fa proprio quel che dicevo prima, ovvero raccontare un qualcosa con un metodo, una struttura e una formula diversa dal solito, risultando un opera incredibilmente maestosa e squisitamente contemporanea. Anche Battaglia nel cielo di Reygadas, per lo stesso motivo.
Raccontaci qualche aneddoto o retroscena dei tuoi lavori e delle tue esperienze passate.
Anche qui ci sarebbe molto da parlare, diciamo che forse la cosa più divertente è che tutti i miei film sono stati girati e montati nel giro di una settimana in condizioni quasi sempre al limite della sopportazione. Shock – My abstraction of Death è stato girato in cinque mezze giornate il giorno dopo esser tornato a casa da un’operazione ai denti che mi faceva restare in piedi a malapena, Pray for diamonds in due giorni e mezzo a Gennaio, con qualche grado sotto lo zero e l’attrice protagonista Francesca Ghezzi praticamente nuda in giro per i campi, King Pest in due giorni lavorando qualcosa come venti ore al giorno pur di stare nel tempi. Addirittura “Images aléatoires – certains hommes vivent sur les arbres” è stato girato e montato in una notte dopo un’ispirazione improvvisa. Insomma, ogni film ha avuto i suoi aneddoti e le sue disavventure, ma soprattutto è sempre stato fatto tutto con molta velocità, poiché girando senza o con una manciata di spiccioli è quasi impossibile avere dei tempi di produzione troppo dilatati che rischiano di compromettere la chiusura del film.
Se la tua vita fosse un film o una canzone, quale sarebbe? E perché?
Troppo Belli, chiaramente.
Riesci a trovare del tempo libero per i tuoi hobby?
Dipende dal periodo, quando sono su un progetto importante è difficile poiché sono concentrato al cento per cento sullo stesso, mentre nei brevi periodi di pausa che ho durante l’anno sì, e riesco a mantenere la passione per il videogioco fruendone e tentandone la creazione, tanto che poco meno di un anno fa avevo iniziato la produzione del videogioco di Pray for Diamonds, che doveva essere un seguito diretto del film. Tuttavia purtroppo nella vita ci si riesce a dedicare bene solamente a una cosa e io ho scelto il cinema.
Cosa significa per te la tua troupe ?
La mia troupe è fondamentale, da Shock – My abstraction of Death non ho più girato esclusivamente da solo come facevo prima ma tento di inserire il mio gruppo anche nei progetti minori, nei videoclip o in altri tipi di produzione. Inoltre penso di avere tra le mani la miglior troupe della mia generazione attualmente all’attivo, con Daniele Fagone alla produzione, Ruggero Melis alla sceneggiatura, Alessio Sartori alla fotografia e Giulia Agatea alle grafiche. Nel mio ultimo film ho lavorato a stretto contatto anche con due amici e grandi artisti/videomaker: Alberto Danelli e Simone Poggesi.
Inoltre fondamentale è stato l’apporto di Domiziano Cristopharo, che mi ha portato nel mondo del cinema indipendente grazie al montaggio e i vfx di gran parte delle sue pellicole da P.O.E. 2 in poi e mantenendo una collaborazione che continua ancora oggi.
Progetti futuri?
Attualmente sto seguendo alcuni lavori: per l’artista Red Sky sto realizzando una serie di videoclip che andranno a coprire tutti i brani del suo nuovo EP di cui l’uscita del primoè fissata al 5 ottobre, sto ultimando la post produzione di Night Gaunts di Domiziano Cristopharo, preparando il mio ultimo cortometraggio che girerò a fine anno e sto girando un documentario per ora top-secret a cui sto lavorando dall’inizio del 2015 e che, oltre ad essere il mio lavoro più importante, sarà pronto probabilmente solo l’anno prossimo e che mi auguro girerà un po’ di festival in giro per il mondo.
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