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Intervista all’attrice, doppiatrice, regista e sceneggiatrice Valentina Carnelutti

« L’unica certezza è la mia capacità di amare, a partire da quella il resto diventa possibile»

Valentina Carnelutti, attrice, doppiatrice, regista e sceneggiatrice. Un’artista poliedrica con una formazione alle spalle che spazia tra diverse dimensioni, dalla musica alla danza, dal cinema al teatro.
Volto noto al grande pubblico televisivo nei panni della cattivissima Veronica Colombo della fiction Mediaset Squadra antimafia, è stata in concorso l’anno scorso a Venezia con il film Arianna di Carlo Lavagna. Quest’ anno è invece l’unica italiana con due film sulla Croisette, La pazza gioia di Paolo Virzì nella sezione Quinzaine des Réalisateurs ed il cortometraggio The Silence, diretto da Ali Asgari e Farnoosh Samadi, due giovani registi iraniani. Candidata ai NASTRI D’ARGENTO come miglior attrice non protagonista per Arianna e La pazza gioia.

di Francesca Caon

Cosa ti ha emozionato di più di questa tua terza volta a Cannes?
La prima volta a Cannes c’era La meglio gioventù, e io non ero potuta andare, la produzione non mi aveva invitata e io non potevo permettermi il viaggio da sola, avevo due bambine piccole… così avevo vissuto l’esperienza da lontano, come una spettatrice e non come un’interprete! La seconda ci sono andata da regista, il mio cortometraggio ReCuiem era allo Short Film Corner. Quando vai a un festival da regista l’esposizione è diversa: ero in jeans, non mi si filava nessuno e Cannes mi è sembrata un grande mercato ricco e faticoso. Ora con La pazza gioia è stato diverso: sei un invitato ufficiale, accolto, accudito, applaudito. E forse l’emozione più forte è stata quella di vedere il film insieme al pubblico, sentire il respiro della sala, e poco per volta le risate e le lacrime. L’applauso finale, la sorellanza con Valeria e Micaela.
Poi The silence, la gioia di vedere che un film piccolo, realizzato solo grazie all’amore per questo mestiere di tutti quelli che vi hanno partecipato, primo tra tutti il produttore Giovanni Pompili, sia arrivato fin qui! Applaudito e riconosciuto nel suo valore più alto, quello di mettere a fuoco una storia necessaria, importante, e di parlare di migranti, in un modo sottile…

Coincidenza vuole che entrambi i ruoli siano quelli di una dottoressa: in La pazza gioia interpreti una psichiatra dai capelli fucsia, e in The silence un’oncologa. Vuoi raccontarci le impressioni, le difficoltà, le gioie di questo doppio successo?
Si, due medici, molto diversi tra loro. Due donne che hanno scelto di occuparsi degli altri. È stato come avere l’opportunità di mettere a fuoco aspetti diversi della stessa cosa: l’amore per gli esseri umani. Solo a Cannes mi sono resa conto, nel corso di una intervista, che avevo affrontato il medico del corpo e quello della psiche nello stesso anno. Anima e corpo mi piace siano accuditi insieme, mi piace che nella mia persona si siano riunite queste due opportunità. Ho messo al servizio del lavoro il mio amore per gli altri, la mia voglia di far stare bene! Il tentativo è stato sempre quello di identificarsi con il personaggio per restituirgli qualcosa di autentico, in questo caso c’era un’identificazione ulteriore, quella del personaggio/medico con il paziente, un altro modo di mettersi nei panni degli altri per aiutare, alleviare la sofferenza, cercare di capire, accettare, trovare un modo per stare…

La pazza gioia è un congegno emozionale fortissimo, che ti spinge a riflettere su quanto a volte possa essere labile il confine tra lucidità e smarrimento, magari per un incontro sbagliato, una sfortuna di troppo. Forse ciò che ci accomuna tutti come esseri umani è la profonda necessità di essere accettati ed amati, è questa la gioia di cui abbiamo una fame inesauribile. Nella tua vita hai mai avuto la sensazione di deragliare e di scivolare, perdendo quei punti di appoggio che credevi sicuri?

Continuamente! Deraglio e scivolo, inciampo. Raramente credo di aver sentito punti di appoggio sicuri, e per brevissimi periodi. Credo che proprio questo faciliti la mia inclinazione a empatizzare con le persone. La ricerca di qualcosa in comune, il desiderio di conoscere, un modo per sentirsi meno soli. L’unica certezza è la mia capacità di amare, a partire da quella il resto diventa possibile.

The Silence è un corto che parla del silenzio in senso esteso, in particolare quello dei nostri Paesi sulla questione della migrazione. Quale è la tua opinione in proposito?

Torno sul tema di mettersi nei panni degli altri. Se solo ci si fermasse un istante, in silenzio appunto, a chiedersi come sarebbe se questa sera tornando a casa non trovassimo più la casa, la strada, il marito, la figlia, se tornando a casa trovassimo solo un incendio che sta finendo di ardere ogni nostro bene, ecco se ci si fermasse in silenzio a pensare a come sarebbe… credo che non si farebbe fatica ad accogliere chi viene da paesi devastati, ridotti in cenere. Basta una macchia di olio sulla camicetta per agitare una tavolata bestemmiando perché la camicetta è costata 300 euro. Con 300 qualcuno compra una camicetta, qualcuno sfama i propri figli per due mesi, o tre o cinque. Qualcuno 300 euro non li vede in una vita intera. A qualcuno i figli li hanno bruciati.
È inaccettabile. Non si può oggi non occuparsi di questo, ciascuno con i propri strumenti.

Cosa si prova a sentire gli applausi del pubblico per un quarto d’ora in una kermesse così importante?
Gratitudine, per essere stata scelta, per aver potuto fare il lavoro che mi piace, per essere stata messa in condizione di dare il meglio, e perché questo lavoro tocca il cuore, e appunto, crea empatia, smuove, apre.

Cosa vorresti cambiasse nel cinema italiano di oggi?

Se ci fosse trasparenza nelle scelte, correttezza nelle assegnazioni di finanziamenti, ruoli, distribuzione, riconoscimenti, se ci fosse equità nei compensi, se ciascuno facesse con cura il proprio mestiere credo che molte persone starebbero meglio e anche il cinema ne trarrebbe giovamento.
Ci sono film stupendi che nessuno vede, film orrendi che restano in sala mesi a intontire chi ha perso la capacità di scegliere. Ci sono attori straordinari che finiscono per fare le pulizie nei locali la notte perché con il cinema (e la televisione e il teatro) fanno la fame, e persone che arrivano a occupare gli schermi abusivamente perché sostenute da un sistema che opera su basi il cui funzionamento mi è ancora incomprensibile.
Mi piacerebbe che il cinema fosse sostenuto dalla politica culturale non solo perché può essere un modo per fare soldi, ma perché può essere un modo per migliorare la vita delle persone, per creare empatia, conoscenza, solidarietà, per dare coraggio e favorire l’evoluzione del pensiero.

Grazie, Valentina
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